
Sessant'anni di vita spericolata. Vasco Rossi ancora ricoverato nella clinica Villalba sui colli bolognesi per una "poco credibile" costola rotta. Il suo rapporto di amore e odio con la città di Bologna che già vent'anni fa l'aveva artisticamente e umanamente snobbato. Senza mai più ricredersi.
Per capire la sua forza devi sforzarti di farlo parlare. Perché quello che ha fatto meglio è mettere in musica il parlato comune. Ci hanno provato in molti, è riuscito solo a lui.
E l’essere nato e cresciuto a Zocca, appennino modenese, poche anime, quel posto dove dividere gli spazi può diventare un problema. E lui, ragazzo, si fece cittadino. Per necessità più che per altro. Dalla montagna arrivò a Bologna, dove è diventato quello che è, Vasco Rossi, ma rimanendo agli occhi degli altri sempre una sorta di alieno sceso dagli Appennini.
In questi giorni dove il web impazzisce per avere notizie sulla sua salute, Bologna ha continuato a snobbarlo come se nulla fosse, nonostante sia nella clinica che sale verso i colli, fuori porta d’Azeglio. Qui pellegrinaggi di fan non ce ne saranno, nonostante Vasco non se la passi molto bene. Che non abbia una costola rotta, come il suo entourage ha fatto credere, lo sanno anche i sassi. L’unica consolazione arriva da quelle persone che gli sono vicine, per affetto più che per lavoro: “La situazione è meno grave di quanto si pensasse in un primo momento”.
Una frase che la dice lunga e si associa benissimo al Vasco Rossi degli ultimi mesi: nessun concerto raddoppiato, ritardo di un’ora a Milano, a Roma sul palco in tuta da ginnastica, cosa che poco ha a che vedere col Komandante Vasco, come lo chiamano i fan.
Lui, dal letto di ospedale, ha promesso che riuscirà a parlare e tranquillizzare coloro che hanno per lui una sorta di venerazione smisurata. Già, perché è uno di quei personaggi del rock che, lasciate le vie di mezzo a Zocca, o è tutto o il niente. O è il più grande rocker italiano o il Forrest Gump della musica italiana.
Gioco al quale Vasco Rossi partecipa molto volentieri perché non è tipo da disdegnare le sfide. Ma ne ha perse non poche, come quella che gli ha lasciato forse i segni più evidenti della sconfitta: quella con Bologna, corteggiata fin da quando era bambino, ma che l’ha sempre respinto. Un rapporto di quasi diffidenza, e Bologna sa essere, quando vuole, anche terribilmente snob. E poi semplicemente perché è sempre stata una presenza quasi imbarazzante.
Blasco, anche oggi a quasi 60 anni, continua a essere l’eccesso più pericoloso. Cocaina, alcol a fiumi, arresti, nessuna voglia di diventare adulto. Tutte cose che Bologna, la sua vera città – che lo si voglia ammettere o meno - non gli ha mai perdonato. Per via di quella puzza sotto il naso che si portano i moralisti che qui, nella città dotta e che fu rossa, riescono a ritrovarsi. Che gli attori siano bottegai mezzo borghesi e anticomunisti o figli di Dozza e Zangheri del Pci.
Poco importa se Vasco Rossi sia l’unico a riempire gli stadi, come nessun altro italiano riesce a fare. Più di Guccini, seppur sempre sold out ma nei palazzetti, Lucio Dalla o De Gregori. Solo Ligabue, che molto – nonostante un suo talento ben marcato – prova a scimmiottarlo, riesce vagamente ad avvicinarsi ai numeri del signor Rossi.
Dettagli. E Bologna se ne infischia, con un insolito cinismo. Così come se ne infischia quella cultura cosiddetta ufficiale, che lo considera colpevole di qualunquismo, che lo ritiene un montanaro. “Come si fa a dare credito a uno che nella sua citazione più celebre sbaglia il nome e scrive Steve Mc Queen invece di James Dean?”. In questa frase c’è tutto il giudizio di quell’ambiente, che non solo lo snobba, ma lo accusa di non aver portato quei numeri da capogiro nella casa dove li avrebbero voluti.
E invece le “teste di Zocca”, come si chiamano tra loro (non senza ironia) gli amici di infanzia fuoriusciti dall’Appennino, alla origini ritornano a ogni occasione e con quella spontaneità che Bologna sembra quasi voler rinnegare. E sono teste ben assortite: da Marco Santagata, insigne petrarchista, a Berta, proprietaria di osteria; da Otis Righetti, funzionario delle Poste, a Maurizio Cheli, astronauta. E Vasco Rossi che della Punto Music prese al volo il passaggio per Bologna offertogli dal lavoro di deejay.
Qui c’è chi lo ricorda timido frequentatore di Vito, osteria alveare di Guccini, prima di tutto (anche lui, sarà un caso, ritiratosi sulla Porrettana), a seguire Dalla, Morandi, Ron, talvolta De André e Gaber. Ma era un ragazzino. Legò con Bonvi, uomo buonissimo, col quale divise anche un appartamento i primi anni. Erano insieme anche la sera che Bonvi morì, investito da un ubriaco, in uno studio televisivo in zona Fiera, dove Vasco era già arrivato e Bonvi, trafelato e in ritardo, parcheggiò la scassata Bmw sulla quale si muoveva e attraversò la sua ultima strada.
E l’essere nato e cresciuto a Zocca, appennino modenese, poche anime, quel posto dove dividere gli spazi può diventare un problema. E lui, ragazzo, si fece cittadino. Per necessità più che per altro. Dalla montagna arrivò a Bologna, dove è diventato quello che è, Vasco Rossi, ma rimanendo agli occhi degli altri sempre una sorta di alieno sceso dagli Appennini.
In questi giorni dove il web impazzisce per avere notizie sulla sua salute, Bologna ha continuato a snobbarlo come se nulla fosse, nonostante sia nella clinica che sale verso i colli, fuori porta d’Azeglio. Qui pellegrinaggi di fan non ce ne saranno, nonostante Vasco non se la passi molto bene. Che non abbia una costola rotta, come il suo entourage ha fatto credere, lo sanno anche i sassi. L’unica consolazione arriva da quelle persone che gli sono vicine, per affetto più che per lavoro: “La situazione è meno grave di quanto si pensasse in un primo momento”.
Una frase che la dice lunga e si associa benissimo al Vasco Rossi degli ultimi mesi: nessun concerto raddoppiato, ritardo di un’ora a Milano, a Roma sul palco in tuta da ginnastica, cosa che poco ha a che vedere col Komandante Vasco, come lo chiamano i fan.
Lui, dal letto di ospedale, ha promesso che riuscirà a parlare e tranquillizzare coloro che hanno per lui una sorta di venerazione smisurata. Già, perché è uno di quei personaggi del rock che, lasciate le vie di mezzo a Zocca, o è tutto o il niente. O è il più grande rocker italiano o il Forrest Gump della musica italiana.
Gioco al quale Vasco Rossi partecipa molto volentieri perché non è tipo da disdegnare le sfide. Ma ne ha perse non poche, come quella che gli ha lasciato forse i segni più evidenti della sconfitta: quella con Bologna, corteggiata fin da quando era bambino, ma che l’ha sempre respinto. Un rapporto di quasi diffidenza, e Bologna sa essere, quando vuole, anche terribilmente snob. E poi semplicemente perché è sempre stata una presenza quasi imbarazzante.
Blasco, anche oggi a quasi 60 anni, continua a essere l’eccesso più pericoloso. Cocaina, alcol a fiumi, arresti, nessuna voglia di diventare adulto. Tutte cose che Bologna, la sua vera città – che lo si voglia ammettere o meno - non gli ha mai perdonato. Per via di quella puzza sotto il naso che si portano i moralisti che qui, nella città dotta e che fu rossa, riescono a ritrovarsi. Che gli attori siano bottegai mezzo borghesi e anticomunisti o figli di Dozza e Zangheri del Pci.
Poco importa se Vasco Rossi sia l’unico a riempire gli stadi, come nessun altro italiano riesce a fare. Più di Guccini, seppur sempre sold out ma nei palazzetti, Lucio Dalla o De Gregori. Solo Ligabue, che molto – nonostante un suo talento ben marcato – prova a scimmiottarlo, riesce vagamente ad avvicinarsi ai numeri del signor Rossi.
Dettagli. E Bologna se ne infischia, con un insolito cinismo. Così come se ne infischia quella cultura cosiddetta ufficiale, che lo considera colpevole di qualunquismo, che lo ritiene un montanaro. “Come si fa a dare credito a uno che nella sua citazione più celebre sbaglia il nome e scrive Steve Mc Queen invece di James Dean?”. In questa frase c’è tutto il giudizio di quell’ambiente, che non solo lo snobba, ma lo accusa di non aver portato quei numeri da capogiro nella casa dove li avrebbero voluti.
E invece le “teste di Zocca”, come si chiamano tra loro (non senza ironia) gli amici di infanzia fuoriusciti dall’Appennino, alla origini ritornano a ogni occasione e con quella spontaneità che Bologna sembra quasi voler rinnegare. E sono teste ben assortite: da Marco Santagata, insigne petrarchista, a Berta, proprietaria di osteria; da Otis Righetti, funzionario delle Poste, a Maurizio Cheli, astronauta. E Vasco Rossi che della Punto Music prese al volo il passaggio per Bologna offertogli dal lavoro di deejay.
Qui c’è chi lo ricorda timido frequentatore di Vito, osteria alveare di Guccini, prima di tutto (anche lui, sarà un caso, ritiratosi sulla Porrettana), a seguire Dalla, Morandi, Ron, talvolta De André e Gaber. Ma era un ragazzino. Legò con Bonvi, uomo buonissimo, col quale divise anche un appartamento i primi anni. Erano insieme anche la sera che Bonvi morì, investito da un ubriaco, in uno studio televisivo in zona Fiera, dove Vasco era già arrivato e Bonvi, trafelato e in ritardo, parcheggiò la scassata Bmw sulla quale si muoveva e attraversò la sua ultima strada.
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