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lunedì 28 giugno 2010

Sui reati degli immigrati due pesi e due misure

Una legge e una sentenza. In Italia gli immigrati camminano così: un passo indietro per via legislativa, un passo avanti per via giudiziaria. Il primo pacchetto sicurezza (luglio 2008) ha introdotto l'aggravante della clandestinità, castigando con una pena accresciuta fino a un terzo i reati commessi dagli immigrati irregolari. Il secondo pacchetto sicurezza (luglio 2009) ha aggiunto il reato di clandestinità, punendolo con un'ammenda da 5 a 10mila euro. Sicché due passi indietro, fin quando nei giorni scorsi la Consulta ha decretato il passo avanti: via l'aggravante, rimane però il reato d'immigrazione clandestina, d'altronde contemplato in quasi tutti gli Stati europei.

Il centrodestra ha reagito facendo spallucce, tanto il bersaglio grosso (il reato) è uscito indenne dalla mannaia della Consulta, l'aggravante non era che un dettaglio, un orpello di cui possiamo fare a meno. Dimenticando tuttavia il rullo di tamburi con cui due estati fa lo stesso centrodestra aveva salutato questo nuovo tipo d'aggravante, eretta a simbolo del "cattivismo" contro gli immigrati teorizzato dal ministro dell'Interno. Ma soprattutto cadendo in un difetto di prudenza, perché non conosciamo ancora le motivazioni delle due pronunzie costituzionali, quelle saranno rese pubbliche questa settimana. E se in relazione al reato di clandestinità la Corte confezionasse un'"interpretativa di rigetto", come si dice in gergo? Se cioè affidasse ai giudici - come trapela da qualche indiscrezione, e come suggerisce un criterio di buon senso - di valutare caso per caso l'applicazione del reato?

Infatti quando l'immigrato viene colpito da un decreto di espulsione, l'ordine di allontanamento viene poi sottoscritto dal questore, e a quel punto gli tocca fare le valigie, rientrando nel proprio paese. Ma il viaggio costa, e del resto la polizia italiana non ha gli uomini né i mezzi per l'accompagnamento coattivo alla frontiera di tutti i clandestini. Anzi, in molti casi non esiste neppure una frontiera con l'Italia: se sei un indiano, se sei un cinese o un maghrebino. Devi cavartela da solo, ma non puoi farlo se non hai un euro in tasca, se versi in uno stato d'indigenza totale. In questa ipotesi la violazione dell'ordine d'allontanamento (e perciò il reato di clandestinità) potrebbe ben essere scusata per l'esistenza di un "giustificato motivo", che poi di volta in volta spetterebbe al giudice apprezzare. E se c'è l'esimente significa che non c'è il reato.

Insomma conviene attendere le motivazioni, dato che il trionfo del cattivismo verso gli immigrati potrebbe rivelarsi una vittoria di Pirro. Qualche osservazione, tuttavia, possiamo fin da adesso spenderla nei riguardi dell'aggravante della clandestinità. Quali che saranno gli argomenti che la Corte metterà nero su bianco nella propria decisione, è innegabile che quest'ultima fa piazza pulita dell'unica circostanza aggravante comune introdotta dopo l'entrata in vigore del codice Rocco. Un'aggravante odiosa, e per una somma di ragioni. Proviamo a elencarle.
Primo: i delitti commessi dai clandestini si trasformavano in altrettanti "delitti d'autore", puniti per lo status soggettivo del reo, anziché per la gravità del fatto commesso. Ma l'articolo 25 della Costituzione àncora la sanzione penale al "fatto"; e del resto una donna stuprata non si sentirà più rincuorata se a violentarla è stato un italiano piuttosto che uno straniero.
Secondo: ogni analogia con la latitanza - l'altra aggravante di status prevista dal nostro ordinamento - in questo caso è fuori luogo. Per difendere la novità legislativa, a suo tempo il sottosegretario Mantovano si era chiesto quale differenza mai vi fosse tra il sottrarsi alla carcerazione o all'espulsione; ma la differenza esiste eccome. Nel primo caso il latitante è stato già colpito da un provvedimento giudiziario che ne accerta la pericolosità sociale; qui invece la pericolosità è presunta, riecheggiando uno stile normativo battezzato dal fascismo.

Terzo: per i suoi stessi connotati, l'aggravante di clandestinità offende quindi il principio di eguaglianza. Più precisamente, viola il divieto di discriminare in base alle "condizioni personali", come recita l'articolo 3 della Costituzione; e al tempo stesso offende la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (articoli 2 e 7), la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (articolo 14), il Patto internazionale sui diritti civili e politici (articolo 26). D'altronde la Consulta aveva già affermato a chiare lettere che il principio di eguaglianza, se riferito alla libertà personale, non tollera discriminazioni fra stranieri e cittadini (sentenza n. 62 del 1994).
Quarto: l'aggravante della clandestinità era ripetibile all'infinito, per qualunque reato commesso da un immigrato clandestino, dagli insulti per un parcheggio disputato alla rapina a mano armata. Ma la civiltà giuridica occidentale ha forgiato da millenni il principio del "ne bis in idem", che a sua volta vale per tutti, anche per gli stranieri che non parlano latino. Senza dire che l'ossessione della sicurezza, oltre a generare mostri giuridici, genera altresì l'abuso del diritto penale; e qui c'è un problema formidabile, che investe pure gli italiani.
Insomma, a questo punto gli immigrati hanno fatto un passo avanti; anzi due, se alla pronuncia della Consulta affianchiamo una recentissima sentenza della Cassazione penale (n. 22212 del 10 giugno). Che vi si trova scritto? Che l'immigrato in condizioni disagiate ha diritto a uno sconto di pena. Come a dire che la politica aveva introdotto l'aggravante della clandestinità, i tribunali l'hanno trasformata in attenuante.
michele.ainis@uniroma3.it

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