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lunedì 15 agosto 2011

Le Havre: gli immigrati di Kaurismaki raccontati da una Italo-Marocchina

 
le havre.jpgitaloma.jpgIl film Le Havre del regista finlandese Aki Kaurismaki, che ha recentemente commosso il Festival di Locarno, racconta una storia di immigrazione e di solidarietà nella città portuale francese di Le Havre. Nella pellicola d'autore, un ex scrittore, Marcel Marx, decide di abbandonare tutto e di iniziare una nuova vita facendo il lustrascarpe, relegandosi ai margini della società appunto a Le Havre.
Questa sua nuova situazione di povertà porta Marx ad assistere  al ritovamento di un gruppo di africani del Gabon, stipati come animali, in un container. Secondo le procedure di sicurezza, la polizia si schiera con armi in mano, e solo con l'intervento di un commissario uno dei ragazzi riesce a scappare con il sogno di trovare una vita migliore. Tra il lustrascarpe e i giovane immigrato nasce una profonda amicizia e Marx cercherà di aiutare il giovane ricongiungersi con la madre in Inghilterra.
Anna Mahjar-Barducci, Presidente della'Ass. "Arabi Democratici Liberali", nel suo libro "Italo-Marocchina. Storie di immigrati marocchini in Europa" (Ed. Diabasis) racconta in uno dei capitoli l'immigrazione nella stessa città portuale di Le Havre, al centro del film di Kaurismaki.
In "Italo-Marocchina", Mahjar-Barducci riporta i ricordi dei suoi zii che dal Marocco si trasferirono per la prima volta in Francia, nel tentativo di migliorare la propria condizione sociale. Arrivati a Le Havre però si ritrovano relegati in un quartiere di immigrati di Le Havre, dove la Francia che loro sognavano sembra essere sempre più lontana.
Il libro offre uno spaccato di vita degli immigrati arabi a Le Havre e delle difficoltà dell'integrazione. Le storie dei protagonisti di "Italo-Marocchina" sembrano quindi integrarsi al racconto malinconico sulle speranze degli immigrati descritte dal pittore dle cinema Kaurismaki.
«Sappiamo ormai tutti quali siano le ragioni che spingono l'emigrante, in particolare quello Nord Africano, ad affrontare la morte pur di arrivare in Europa: la fame, l'oppressione, la speranza e spesso l'ignobile sfruttamento dell'illusione creata dalla comunicazione globale.
Sulle ragioni, invece, che favoriscono o impediscono l'integrazione dai paesi d'arrivo crediamo di sapere molto, anche se in realtà sappiamo ben poco. Gli incentivi economici, educativi, politici, e sociali offerti dall'Europa non sono sufficienti a surmontare le differenze culturali e religiose, e l'orgoglio di clan dei nuovi arrivati». (Vittorio Dan Segre, dalla prefezione di Italo-Marocchina)
Anna Mahjar-Barducci è una giovane giornalista e scrittrice italo-marocchina. È cresciuta tra la Versilia, il Marocco e la Tunisia; ha trascorsoparte della sua infanzia in Zimbabwe, Senegal, Guinea Conakry e Gambia.Ha vissuto, a lungo,in Pakistan, dove ha studiato e ha viaggiato spesso per lavoro nei paesi del Golfo, tra cui l'Arabia Saudita. La mamma è musulmana, il padre cristiano e il marito ebreo. Vive tra Washington e Gerusalemme.,
I suoi articoli sono apparsi su varie testate mediorientali, nonché italiane ed europee. Ha incontrato e intervistato leader politici internazionali; in particolare figure chiave della cultura e della politica pakistana, tra cui l'ex premier Benazir Bhutto, pochi mesi prima del suo assassinio.È presidente dell'Associazione Arabi Democratici Liberali, che ha sede a Roma. È autrice di «Italo Marocchina. Storie di immigrati marocchini in Europa» (Diabasis, 2009) e di «Pakistan Express. Vivere e cucinare all'ombra dei talebani» (Lindau, 2011).

 Vuoi vedere il trailer di Le Havre? vai qui

 
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DAL LIBRO "ITALO-MAROCCHINA"
Arrivo a Le Havre
Leila e Karim si sposarono pochi giorni prima della loro partenza per la Francia. Andarono a Le Havre in autobus, con un biglietto di sola andata. Mia zia in valigia mise i suoi bracciali d'oro, le foto di famiglia, le sue jillabah e una tajina53 di terracotta. Il giorno della partenza, jaddah pianse per tutto il giorno. Era felice per Leila, ma non sapeva quando l'avrebbe potuta rivedere.
I miei zii partirono con soltanto due bagagli. Quando arrivarono a Tangeri per prendere il traghetto, videro da lontano le coste della Spagna. Karim si tirò uno schiaffo in faccia, per convincersi di essere sveglio. Non riusciva a credere che in poche ore avrebbe messo piede in Europa. Mia zia, invece, sentiva già la nostalgia di casa. Ripensava, però, alle parole di Karim: "Ricominciare da capo, lontano dalla miseria". E Leila non vedeva l'ora che ciò si avverasse.
Arrivati a Le Havre, i miei zii rimasero storditi. Erano gli anni Settanta. La temperatura era bassa e tutto lì era diverso dal Marocco. Le automobili per strada erano nuove, le persone avevamo abiti alla moda e gli edifici erano così grandi. Per un momento pensarono di non farcela.
Le Ferrovie pagarono ai miei zii un albergo a due stelle per un breve periodo. Nel frattempo, Karim cominciò a lavorare; mentre Leila, per paura di perdersi, rimaneva nella stanza dell'hotel tutto il giorno, aspettando il ritorno del marito. Due settimane dopo il loro arrivo, finalmente, furono consegnate loro le chiavi del nuovo appartamento.
Quel giorno mio zio prese Leila per mano e si diressero in autobus nella periferia di Le Havre. Appena arrivarono davanti all'appartamento, mia zia rimase delusa. Sperava in un posto migliore. L'edificio era circondato da palazzi grigi, altissimi e tutti uguali. Mia zia notò che non c'era nemmeno un francese in giro. Nel cortile aveva visto soltanto africani e, salendo le scale per andare nel suo appartamento, aveva incontrato una famiglia di marocchini. L'appartamento li rassicurò. Era grande e c'erano quattro stanze da letto. Leila aprì i bagagli e tirò fuori la tajina, per preparare la cena a Karim.
Da allora, i giorni cominciarono a trascorrere lentamente. Lo zio tutte le mattine andava a lavoro fino alle sei di sera e Leila rimaneva come sempre a casa. Aveva conosciuto nell'immobile alcune donne sposate di origine marocchina e algerina. A volte, le andava a trovare per qualche ora nel pomeriggio, ma senza entrare troppo in amicizia. Leila continuava a chiedersi dove fossero i francesi. Pensò, addirittura, che ce ne fossero molti di più in Marocco che non a Le Havre.
Karim tornava a casa sempre stanco. Non parlava mai delle sue giornate e di quello che succedeva sul posto di lavoro. Tutte le sere si sedeva al tavolo. Aspettava che mia zia gli servisse la cena, le solite sardine al pomodoro, che mangiavano senza dire una parola. Verso le nove si coricavano a letto e facevano l'amore.
Un anno dopo nacque Mohammed, detto Momo. Mio zio era contentissimo. Aveva avuto un maschio e, con chiunque parlasse, raccontava di essere diventato padre. Mia zia non l'aveva mia visto così felice. Dopo la nascita di Momo, Karim decise di portare mia zia, per la prima volta, nel centro di Le Havre. L'accompagnò addirittura a fare shopping nei negozi per bambini.
Soltanto quel giorno Leila si accorse di essere arrivata in Francia. Era dicembre, e per le strade c'erano le luci natalizie. Non aveva mai visto una città illuminata. Era uno spettacolo straordinario. Le donne nel corso, però, sembravano così sicure di se stesse, fumavano, erano bionde e con pellicce costose. Si vergognò. Lei girava ancora con la sua vecchia jillabah. Disse a Karim che le sarebbe piaciuto tanto comprare un vestito nuovo e che avrebbe voluto sentirsi anche lei, una volta nella vita, una signora.
Mio zio non le aveva mai fatto un regalo, e lei gli aveva dato da poco un figlio maschio. Entrarono in un negozio, e le comperò un vestito di lana azzurra, pagando con un assegno. Leila sembrava essere ancora più bella di quando l'aveva conosciuta. I capelli lunghi ondulati e sciolti, le labbra truccate con un rossetto rosso di Yive Sant-Loro, invece di Yves Saint-Laurent - comprato nella medina di Kenitra a pochi centesimi - l'abito nuovo e in braccio Momo.
Per almeno sei mesi Karim cercò sempre di tornare a casa appena terminato il lavoro, mentre il week-end lo trascorreva a casa a giocare con Momo. Mia zia era contenta di vedere il marito così attaccato al figlio. Eppure, da quel giorno in cui Karim le aveva comprato il vestito azzuro, non l'aveva più portata in centro e lentamente smise anche di toccarla. Leila non capiva il perché. Cercava di non fargli mai mancare niente.
Quando Karim arrivava a casa, trovava il cibo pronto e il pane fatto a mano. I vestiti di Karim erano sempre lavati e stirati. Mia zia ci teneva che lo zio fosse in ordine. Ricuciva i bottoni dei pantaloni, che, per farli durare più a lungo, rafforzava con toppe e con stoffa di vecchi abiti nell'interno coscia. Quando Karim, stanco, si sedeva sulla sedia, lei gli toglieva le scarpe e i calzini con i buchi ricuciti, e gli metteva le babouche.
Una sera Karim non tornò a casa a dormire. Non chiamò nemmeno per avvisare. Leila non conosceva nessuno dei suoi colleghi di lavoro, per chiedere loro dove fosse il marito. Rimase sul letto ad aspettare sveglia tutta la notte con Momo che dormiva accanto a lei. La mattina verso le sei, sentì aprire la porta. Era Karim. Aveva i capelli spettinati e l'odore di un profumo da donna addosso.
- Dove sei stato? Mi sono preoccupata.
- Ho avuto da fare. Non ti deve interessare.
- Che cosa vuoi dire?
- Che sono affari miei.
- Dimmi dove sei stato? È mio diritto!
- Tuo diritto? Choufi, sono io che ti ho portato in Francia.
Ricordatelo, quando parli con me. Se non fosse per me, saresti
ancora a fare la bonne a casa d'altri. Vuoi che ti rimandi a
Groupe Six?
Leila non disse più niente. Se avesse sbattuto la porta di casa, non avrebbe saputo dove andare. Il suo francese non era buono. Non aveva un titolo di studio. Aveva fatto soltanto la seconda elementare e non sapeva né leggere né scrivere bene. Avrebbe potuto tornare in Marocco con suo figlio; ma quale futuro avrebbe potuto dargli? Così Leila andò in cucina, preparò il caffè e, senza dire niente, portò la colazione a Karim.
Mio zio da quel giorno non tornò più a casa presto. Sul posto di lavoro, aveva incontrato Paulette, la cameriera del bar della stazione. Era bionda, trentenne, i capelli lisci, la pella morbida, chiara, con leggere lentiggini sul volto. Indossava gonne corte, maglioni stretti e colorati e profumi dolciastri.
Si truccava sempre con un rossetto rosso, che lasciava il segno delle sue labbra sulle Gouloises55 che fumava. Paulette non era per niente timida. Scherzava al bancone con i clienti al bar, spesso facendo battute provocanti. E, se c'era qualcuno che le piaceva, lasciava sullo scontrino il suo numero di casa.
Paulette non sapeva che cosa fosse una harira e nemmeno dove si trovasse Kenitra. Amava la musica disco, Charles Aznavour e il vino francese. Una donna così, Karim non l'aveva mai vista. Lui era nato a Essaouira, e fino ad allora aveva vissuto soltanto in Marocco. Le donne lì non fumavano e non toccavano gli uomini mentre parlavano, nemmeno per sbaglio.
Paulette invece, quando scherzavano, si avvicinava sempre al suo corpo e si faceva accendere la sigaretta, che teneva stretta fra le labbra. A volte Paulette, per gioco, passava le sue mani tra i capelli di Karim. Lui non si era mai sentito così eccitato. Leila era bella, ma non era la stessa cosa. Era sempre a casa, e non aveva mai niente da raccontare. E poi Karim era andato in Francia per cambiare vita, per dimenticare la miseria del Marocco. Leila, invece, gliela faceva soltanto ricordare. Aveva anche appeso in casa una foto di Hassan II.
Un pomeriggio, mentre Karim stava bevendo un caffè, Paulette gli chiese se poteva accompagnarla a casa, dato che la sua macchina era dal meccanico. Karim non riusciva a dirle di no e la portò fino al portone di casa sua. La guardò con incertezza, e lei gli chiese se voleva salire nel suo monolocale a bere qualcosa. Karim accettò esitante.
Paulette gli versò in un bicchiere birra da una lattina. Era la prima volta che assaggiava il sapore dell'alcol. Suo padre gli aveva sempre detto che per il Corano era haram. Karim pensò che quello non poteva essere peccato. Paulette lo faceva sentire vivo, quasi essenziale. Per la prima volta, riusciva a sentire le proprie sensazioni ed emozioni senza reprimerle.
Paulette si versò della birra, poi prese la mano di Karim e l'appoggiò sui suoi piccoli seni impertinenti. Lui si sdraiò su di lei, senza spogliarla del tutto e, quella notte, non pensò a niente. Fra le gambe calde e lisce di Paulette, i suoi problemi non esistevano. Si sentì finalmente potente. Quella notte fu il suo riscatto.
La relazione fra mio zio e Paulette durò soltanto un mese. Dopo di lei, Karim incontrò Jacqueline, e poi Isabelle, e poi Maya e tante altre ancora. La sera tornava a casa ubriaco con vestiti che puzzavano di fumo e di donna. Intanto mia zia era rimasta incinta di Lamia, poi di Maryam e poi di Fatiha. A nessuna di loro Karim comperò mai un giocattolo o un vestito nuovo. Smise anche di interessarsi a Momo. A mia zia, invece, ripeteva che era capace soltanto di fare figlie femmine e non più maschi.
A casa non c'erano mai soldi, nemmeno per fare la spesa. Karim spendeva tutto il suo stipendio fra donne e gioco. Mia zia non diceva mai niente, non si lamentava mai e si occupava in silenzio di crescere i figli. Un giorno che Lamia si era ammalata e aveva la febbre a 39, mia zia non sapeva come rintracciare Karim: aveva bisogno di chiedergli soldi per comprare le medicine per la figlia.
Lo zio anche quel giorno tornò tardi. E quella sera Leila, esausta, cominciò a urlargli che non poteva più vivere così, che le aveva rovinato la vita, e quella dei suoi figli. Che non sapeva più chi avesse accanto. Karim, ubriaco, prese il coperchio della pentola a pressione sul tavolo e cominciò a picchiarla.
 

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